Mar, 30 Apr, 2024

Sergio Zavoli, l’uomo che unì l’anima alla parola. Cento anni fa nasceva il giornalista che inventò il “Processo alla tappa”.

Sergio Zavoli, l’uomo che unì l’anima alla parola.  Cento anni fa nasceva il giornalista che inventò il “Processo alla tappa”.

Capace di miscelare con intelligenza e saggezza, sport e costume, politica e mondanità

Chi non ricorda - per le persone della mia età - le ore trascorse con i nonni, in cucina davanti al televisore, ad assistere al “Giro d’Italia”? 

Erano gli anni '60, i primi, quelli belli, senza la guerra in Vietnam e senza i concerti dell’isola di Wight che sdoganava droga e costumi irriverenti, senza la contestazione in piazza dei sessantottini, con le fabbriche che lavoravano a pieno ritmo 24 ore al giorno, scanditi da tre interminabili turni di fatiche. Si viaggiava in Vespa, in 500, le ferie estive duravano un mese e tutti erano contenti: erano gli effetti di un boom economico tanto atteso, che riscopriva la voglia di fare e la fantasia degli italiani, dopo anni di privazioni e censure che avevano visto gli stessi passare dalla dittatura fascista alla democrazia, attraverso una tragica guerra civile che in 19 mesi trasformò il mito degli “italiani brava gente“, in una dimensione più realistica dell’uomo che deve sopravvivere ai suoi stessi errori.

C’era voglia di vita, di novità, di pace, di fare qualsiasi cosa per ritrovare se stessi e dialogare con il prossimo. C’era voglia di normalità, quella cosa che rende l’uomo semplice, quindi buono e disponibile verso gli altri.

La radio aveva quindi una parte fondamentale nel fornire agli italiani, quello di cui per troppo tempo la loro stessa storia li aveva privati, ovvero la speranza scandita dalle parole di chi, ogni giorno, userà le medesime al microfono della stazione radio nazionale, quella libera, democratica, indipendente non tanto, perchè ci sono i nuovi partiti politici a spartirsi l’informazione, comunque ben accetta dal popolo italico, troppo tempo imbavagliato in paure e censure totalitarie.
Era un mondo in cui erano i bravi ad emergere, anche chi era raccomandato doveva dimostrare di essere in gamba, per non deludere chi lo aveva voluto e piazzato in quel posto di lavoro e quindi di responsabilità: permaneva quindi una certa forma di clientelismo, antico retaggio della civiltà italica, ma in quel periodo era un difetto sano, che con il passare del tempo si trasformerà in una malattia sociale incurabile.

Si iniziava dalla fiducia nel prossimo per arrivare al merito del singolo individuo, non c’erano più i gerarchi burattinai a menar le danze, a decidere chi doveva far cosa per chi e per conto di quali soggetti estranei alla libertà di pensiero.

sergio zavoli

Uno dei primi giornalisti a trarre profitto dalla mutata situazione del primo dopoguerra, ed uscire dagli schemi tipici dell’informazione del tempo, è  stato senza dubbio Sergio Zavoli. Ravennate d’origine e riminese di adozione, quando nasce il 21 settembre del 1923, l’Italia sta cambiando la sua storia e purtoppo il suo futuro. La sua giovinezza è scandita da studio e riflessione sul come programmare vie nuove dedicate alla comunicazione, quindi fin da subito si dedica alla ricerca pratica sul campo, con l’ntento di chi vuole rinnovare, prigioniero però di un mondo barbaro che lo limita nella sua azione. Solo nel 1947 potrà trasferirsi a Roma per iniziare la sua straordinaria e lunga carriera di giornalista e ben presto si accasa nella neonata RAI, per poter cosi usufruire oltre all’uso della parola dedicata all’informazione, anche alle immagini che la televisione può offrire a supporto.

sergio zavoli processo alla tappa

La cosa che rimane scolpita nella mente e nei cuori dell’opera innovativa di Zavoli, è senza dubbio la rubrica televisiva  “Processo alla tappa”. A partire dal 1962, questa parentesi televisiva segue l’arrivo di ogni tappa dell’appuntamento ciclistico mondiale dell’anno, secondo solo alla “Grande Boucle”, il Tour de France, ossia il Giro d’italia. Commentatore di ogni tappa, un mito delle telecronache sportive di quegli anni, il grande Adriano De Zan: il suo modo di raccontare la corsa è unico, non più il compassato e rigido Nicolò Carosio, di quando commentava le gesta della Nazionale italiana di calcio e quelle del Grande Torino degli anni '40.

adriano de zan

No, perchè lui aggiungeva una moderata enfasi che coinvolgeva lo spettatore, lo portava con il corridore sulle rampe delle salite di montagna, faceva in modo che il telespettatore seduto tranquillamente sul sofà a godersi lo spettacolo, avesse l’impessione di sentirsi scendere sulla fronte le stesse gocce di sudore dell’atleta impegnato nell’impresa, i battiti del cuore aumentavano, l’affanno di chi deve arrivare primo sul gran premio della montagna, guardandosi alle spalle ogni tanto, sempre, per scrutare il nemico a pedali che sbavava dalla fatica per poterlo raggiungere e poi 'giù’ in discesa, fino al gran finale, dove a tagliare il traguardo d’arrivo, non era solo il corridore, ma milioni di italiani che avevano faticato e corso con lui.

In quell’attimo di pausa, dove la trance agonistica veniva normalizzata dai corridori metabolizzandola nella mente e nei muscoli, lo spettatore a casa ne approfittava per sostituire idealmente le scarpette da ciclista con semplici pantofole da camera, in completo relax, sì perchè di lì a poco, sarebbe iniziata una nuova corsa, più tranquilla, pacata e senza sudori: la rubrica televisiva che iniziava subito dopo la conclusione della cavalcata ciclistica, il ”Processo alla tappa “.

Ideatore e conduttore lo stesso Sergio Zavoli, quasi mai al centro delle riprese, ma seduto a parte, seppur a fianco dell’intervistato. Questi non era mai il campione di giornata, che sarebbe arrivato dopo, perchè la precedenza era riservata a coloro i quali, dietro le quinte, defilati, quasi nascosti, perfetti sconosciuti al grande pubblico, avevano il merito di seguire, preparare, istruire, incoraggiare, allenare i corridori.
Ecco quindi arrivare nello studiolo volante preparato dai tecnici Rai in prossimità di ogni arrivo di giornata, i meccanici, i preparatori, i massaggiatori, i tecnici, gli allenatori e tutti coloro che avevano avuto una parte importante in un evento sportivo di giornata, che teneva legato alla sedia milioni di telespettatori.
Quando Zavoli iniziava le interviste, erano sempre impostate con cura ed attenzione verso gli aspetti umani dei protagonisti, tutti uguali tra di loro, sia il vincitore, sia la maglia nera di giornata (l’ultimo arrivato), avevano il loro spazio, potevano far partecipi dei loro sentimenti il pubblico che amava ed apprezzava.

L’autore, con intelligenza e saggezza, miscelava sport e costume, politica e mondanità, con naturalezza e sobria, quanto calma schiettezza: sapeva estrapolare dagli ospiti, chiunque fosse il destinatario della sua domanda, gli aspetti più reconditi dell’individuo, scavando dentro alla sua mente che in quel momento si apriva di fronte a tanta educata dialettica, tanto che il momento di sport si trasformava magicamente in palcoscenico contornato da umiltà e passione per il proprio lavoro, che dava l’immagine di un angolo tranquillo di casa, in cui si ritrovava un gruppetto di amici per discutere della giornata.

I colleghi giornalisti, a turno, che accompagnavano Sergio Zavoli nel condurre le domande, erano personaggi del calibro di Enzo Biagi, Indro Montanelli, Gianni Brera, Bruno Raschi ed i vecchi campioni come Gino Bartali, con la sua indimenticabile frase rivolta all’organizzazzione di ogni Giro d’talia "l’he’ tutto da rifare”.
Campioni di sport, di comunicazione, di educazione e di intelligenza, di lavoro oscuro, questo era il mix che dava alla trasmissione quel successo meritato che sarebbe durato anni.

Per la prima volta i professionisti della pedalata, venivano celebrati per la fatica collettiva, che precedeva sempre l’impresa sportiva individuale, cosa questa che portava molta acqua al mulino della propaganda di questo massacrante e faticoso sport.

franco balmamion

Quando la trasmissione nasce nel 1962, a vincere il Giro d’Italia è un giovane piemontese nativo di Nole che si chiama Franco Balmamion. Vincerà anche l’edizione del 1963, riuscendo nell’impresa, di aggiudicarsi due manifestazioni senza arrivare mai primo al traguardo di tappa.  Timido, forte di carattere, con due occhi che si fanno piccoli quando guardano in faccia l’interlecutore, furbo e scaltro quanto basta per saper gestire il suo fisico e la sua corsa, traendo il massimo dal suo sforzo, bastante per arrivare sempre con i primi, mantenendo una forma ed una condizione psicologica che lo porterà alle vittorie finali.
Intervistato da Zavoli, si scoprono affini nel carattere schivo ed introverso, sempre improntato al risultato, ma con il massimo rispetto per il modo in cui i due uomini, affrontano ed interpretano i loro ruoli: sia le domande dell’uno che le risposte dell’altro, convergono in una sintesi umana che prende origine dal sapere che provengono dallo stesso mondo, umile, rispettoso dei principi basilari che per secoli sono stati le fondamenta morali delle persone per bene.

In questi dialoghi non c'è celebrazione individuale, non esiste agiografia tendente a sublimare l’individuo, non si sente la necessità di descriversi diversi dall’uomo qualunque, perchè i soggetti sono persone semplici e normali e quando arrivano primi nel loro lavoro, non sono indicati come eroi, ma semplicemente come onesti lavoratori che hanno compiuto, il giorno della vittoria, solo qualcosa in più oltre il loro onesto lavoro quotidiano.

Zavoli inventò l’intervista in corsa parlando dalla macchina con il corridore impegnato nella fatica, fu il protagonista dell’introduzione della moviola in ambito sportivo, fu anche colui che, dopo faticosissimi arrivi al traguardo degli atleti, invitava gli esausti Taccone e Zandegù ad intonare una canzoncina a loro piacimento, per avvicinare ancora di più gli italiani a questi eroi infangati e sporchi sulla bicicletta.

Nel 1969 è autore dell’intervista che lo porterà nella camera d’albergo di un piangente Eddy Merckx, corridore belga squalificato dal Giro per essere stato trovato positivo alle analisi antidoping: l’intervista a questo professionista del pedale, vincitore di tutto quello che c’era da vincere e chiamato per questa sua tenacia “il
cannibale” , coricato sul lettino,, distrutto dalla notizia per lui infondata, che lo costringeva a lasciare la competizione con mille polemiche a seguire, resterà nella storia del giornalismo mondiale.

zavoli pertini

Sergio Zavoli non fu solo questo ovviamente, in quanto la sua lunga vita, (muore nell’agosto 2020 ) lo porterà ad assumere importanti incarichi pubblici, sia in ambito professionale che politico.

Mi piace ricordarlo così, con quell’aria seria, con il viso che non tradisce smorfia in un corpo dalle movenze straordinariamente semplici, con il microfono aperto a tutte le voci, meravigliosamente laico da farlo sembrare il buon parroco di paese amato da tutti.
Chissà se in paradiso, a parti invertite, intervistato dal buon Gino Bartali, che gli chiede di esprimere un giudizio su quasi tutti i giornalisti italiani che si accapigliano urlanti nei sottotetti dell’informazione, riuscirebbe a rispondere come faceva Ginettaccio,…..”l’he tutto da rifare”.

Io sono sicuro di sì.
Foto copertina: https://www.odg.it/ricordo-di-sergio-zavoli/38047

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