Bloccare i movimenti davanti a un imprevisto, abbassarsi a un rumore improvviso o fuggire da un pericolo: sono reazioni istintive che hanno garantito la sopravvivenza degli esseri viventi. Ora anche i robot stanno iniziando a sviluppare qualcosa di simile.
Un gruppo di ricerca del Politecnico di Torino, guidato dal professor Alessandro Rizzo del Dipartimento di Elettronica e Telecomunicazioni, ha messo a punto un sistema che permette alle macchine di “provare paura” per valutare meglio i rischi e muoversi in modo più sicuro. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista IEEE Robotics and Automation Letters e ripreso da IEEE Spectrum, la piattaforma online della più grande associazione mondiale di ingegneria.
Secondo Rizzo, i robot di oggi sono progettati per compiti molto specifici, ma spesso faticano ad adattarsi a contesti complessi e imprevedibili. Ispirandosi a come funziona il cervello umano, i ricercatori hanno riprodotto la cosiddetta “via bassa” della paura: un meccanismo che negli esseri viventi permette una risposta immediata al pericolo, prima ancora che intervenga il ragionamento.
Per farlo, il team ha combinato due strumenti: il controllo predittivo, che guida i movimenti in tempo reale rispettando i vincoli del compito, e l’apprendimento per rinforzo, che consente al robot di adattarsi in base ai segnali grezzi provenienti dall’ambiente. I test hanno mostrato che questo approccio rende i robot più prudenti. In scenari con pericoli in movimento, la “via bassa” ha permesso alla macchina di mantenere una distanza di sicurezza di oltre tre metri dagli ostacoli, mentre i modelli tradizionali arrivavano a sfiorarli.
Le applicazioni possibili vanno dal soccorso in ambienti rischiosi alla sorveglianza, fino alla manipolazione di oggetti delicati. Il limite, spiegano i ricercatori, è che la risposta rapida funziona bene solo nel breve termine. Per questo il prossimo passo sarà sviluppare anche una “via alta”, capace di decisioni più ponderate e strategiche, simili a quelle che negli esseri umani dipendono dalla corteccia prefrontale.
Guardando al futuro, il team immagina di integrare nei robot anche modelli linguistici avanzati – come ChatGPT – per simulare funzioni cognitive più complesse, dalla pianificazione alla valutazione del contesto. E magari, un giorno, arricchire le macchine di un ventaglio più ampio di emozioni, così da renderle non solo più intelligenti, ma anche più “umane” nelle loro scelte.