Lun, 18 Ago, 2025

Live Aid: il concerto che scosse il mondo e rese la musica un atto d’amore collettivo. 40 anni dopo, l’eredità è ancora viva

Live Aid: il concerto che scosse il mondo e rese la musica un atto d’amore collettivo. 40 anni dopo, l’eredità è ancora viva

Il 13 luglio 1985 il mondo si fermò per ascoltare la musica. Ma non fu solo intrattenimento. Fu un atto collettivo, una chiamata globale alla solidarietà, uno spartiacque tra la musica come spettacolo e la musica come forza sociale. A quarant’anni di distanza, l’eco del Live Aid è ancora potente: non solo per le performance leggendarie, ma per ciò che rappresentò.

Due stadi, un solo mondo

Ideato da Bob Geldof e Midge Ure come risposta alla devastante carestia che colpì l’Etiopia tra il 1983 e il 1985, il Live Aid fu molto più di un concerto: fu un evento globale. Due palchi, due continenti — Wembley a Londra e il John F. Kennedy Stadium a Filadelfia — collegati in diretta satellitare e trasmessi in oltre 150 paesi a un pubblico stimato di 1,9 miliardi di persone.

live aid bob geldofBob Geldof fu l'ideatore dello storico evento  musicale

Fu un progetto ambizioso e pionieristico: in un’epoca in cui i CD erano appena nati, il vinile regnava ancora e internet era lontano, Live Aid anticipò il futuro della comunicazione globale.

L’impronta britannica (anche in America)

Un dato poco evidenziato ma significativo: se a Wembley gli artisti erano interamente britannici, anche a Filadelfia — patria della Dichiarazione d’Indipendenza — furono ancora i britannici a dominare numericamente la scaletta. Black Sabbath, Judas Priest, Simple Minds, The Pretenders, Eric Clapton, Phil Collins, Duran Duran, Mick Jagger, Keith Richards, Ron Wood… Un segnale forte di quanto il pop e il rock made in UK fossero, negli anni ’80, il punto di riferimento della scena musicale globale.

Le esibizioni entrate nella storia

Impossibile non partire dai Queen: una performance considerata da molti la migliore live di sempre. Freddie Mercury, in perfetta sintonia con i 72.000 spettatori di Wembley, trasformò ogni nota in carisma puro. Un momento così potente da diventare il cuore narrativo di Bohemian Rhapsody, il film biografico sulla band.

Subito dopo, gli U2. All’epoca ancora emergenti, si consacrarono con una versione dilatata e intensissima di Bad, in cui Bono scese tra il pubblico e creò una connessione emotiva raramente vista su un palco. Da quel giorno, per gli U2 iniziò l’ascesa definitiva.

David Bowie emozionò con Heroes, mentre Sting, da solo con la chitarra, ipnotizzò in Roxanne e Message in a Bottle, prima di unirsi a Mark Knopfler e Phil Collins in una versione perfetta di Money for Nothing.

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Negli USA, Madonna, ancora all’inizio della sua carriera, brillò per energia e presenza scenica. Il duetto tra Mick Jagger e Tina Turner fu adrenalina pura.

E poi le riunioni storiche: The Who al completo, Black Sabbath con Ozzy Osbourne, i Duran Duran, di nuovo insieme per l’occasione. I Simple Minds travolsero con la forza drammatica di Jim Kerr; Bryan Adams conquistò con la sua energia contagiosa; Run-D.M.C. portò l’hip-hop in uno dei primi grandi palchi rock mainstream.

Elton John, invece, regalò emozioni e successi senza fine. E infine, i due momenti corali conclusivi: Do They Know It’s Christmas? per Band Aid e We Are the World per USA for Africa — rispettivamente diretti da Geldof e Lionel Richie — simboli dell’unità tra musica e coscienza sociale.

https://www.youtube.com/watch?v=QVLUjteaPm8

Anche le note stonate

Non tutto andò alla perfezione, e alcune criticità emersero. Phil Collins, dopo essersi esibito a Londra, volò in Concorde a Filadelfia per suonare con Clapton e con i Led Zeppelin. Ma la performance fu così deludente che Jimmy Page rifiutò la pubblicazione ufficiale. Le tensioni post-concerto tra Page e Collins durarono anni.

Paul McCartney, durante Let It Be, cantò per due minuti con il microfono spento. Il pubblico e gli artisti sul palco sopperirono con un’inaspettata solidarietà corale. La versione successiva fu poi rimasterizzata.

La più caotica fu però l’esibizione di Bob Dylan con Keith Richards e Ronnie Wood. Arrivati impreparati e, secondo i racconti, poco lucidi, suonarono una versione improvvisata di Blowin’ In The Wind. A metà brano, a Dylan si ruppe una corda: Wood gli passò la sua chitarra e rimase a mimare. Quando ne ricevette una nuova, era completamente scordata.

Problemi tecnici, stanchezza e un evento lungo oltre sedici ore portarono anche a momenti meno brillanti. Ma, nel quadro generale, furono dettagli marginali.

Un’eredità che risuona ancora

Il Live Aid raccolse circa 150 milioni di dollari, equivalenti oggi a oltre 400 milioni. Ma il suo impatto fu soprattutto simbolico: per la prima volta, la musica dimostrò di poter agire da collante globale, da megafono per una causa umanitaria, da strumento di pressione per i governi.

Ha lasciato un’eredità culturale potente: ispirò eventi come Live 8, Farm Aid, e cambiò per sempre il modo in cui si pensano i concerti benefici. Mise la sofferenza africana al centro dell’agenda mondiale e contribuì a smuovere quella barriera di indifferenza che spesso circonda le crisi umanitarie.

A 40 anni di distanza, il Live Aid rimane il simbolo di un giorno in cui la musica mostrò davvero di poter cambiare il mondo. Anche solo per un giorno. Un promemoria di ciò che la cultura popolare può fare quando è guidata da un’idea forte, da una visione collettiva, da un’urgenza vera.

Per rivivere quei momenti: https://www.youtube.com/@liveaid

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