Mer, 8 Ott, 2025

La storia del fascismo nella serie televisiva “M. Il figlio del secolo” tratta dal libro di Antonio Scurati

La storia del fascismo nella serie televisiva “M. Il figlio del secolo” tratta dal libro di Antonio Scurati

Che la serie televisiva in onda su SKY, riguardante la figura di Mussolini tratta dal libro dello storico di origini napoletane Antonio Scurati, fosse destinata a far parlare, era una certezza matematica visto il clima politico che si sta respirando in Italia, paese nel quale tutti sono contro tutti per un derby calcistico, figuriamoci dunque quando il dibattito si concentra su “Mascellone”.

Figura morta e sepolta, ma sempre al centro dell’attenzione, tirato per i capelli dalla sinistra italiana e buttato come occasionale insaporitore su polpette avvelenate, servite sul piatto della polemica ad una destra che ribatte, ma nello stesso tempo non rinnega totalmente il passato: in pratica nessuno ci fa un figurone a tirare in ballo politicamente il Duce ad  ottant’anni dalla morte, ma risulta sempre “glamour” parlarne, ogni qualvolta la politica tutta, non ha nulla di nuovo da dire a se stessa, ma in particolare a quei tanti elettori, ormai conclamati renitenti al voto, causa ingiustificata inadeguatezza dei candidati al podio.

Che ci sia un ritorno al fascismo è da escludere semplicemente perché di veri fascisti in Italia fortunatamente si è persa traccia da parecchio tempo: rimangono molti imbecilli che scimmiottano i trascorsi lugubri del ventennio, triste rituale di ogni democrazia che nasce male, che ogni tanto, quasi sempre, deve inventarsi fantasmi contro i quali aizzare la piazza, ma che nello stesso tempo non ha il coraggio di reprimere la violenza gratuita di parte di essa.

Insomma un gran pasticcio all’italiana, come sempre, come in tutti i trascorsi in cui ognuno di “noaltri” si è guardato allo specchio per poi girars , disgustato nel vedersi per quel poco che siamo: opportunisti, solo e semplicemente questo, campioni nell’arte di arrangiarsi in qualsiasi modo ed occasione, in politica come nella civile nostra normale e pallosa quotidianità.

Non ho letto i libri di Scurati, semplicemente perché ritengo li abbia scritti per fare cassa, cosa legittima e comprensibile sapendo che il mestiere di saldatore rende meno e non ti apre palcoscenici da cui pontificare, attaccando la destra odierna, come dimostrato ampiamente dal suo atteggiamento e pensiero rivolto ad una classe politica che, pur tra imbarazzanti profili ed atavici difetti italioti, non è certamente paragonabile all’ideologia fascistoide: almeno quelli un ideale, anche se becero ce l’avevano, quindi se la fiction su Mussolini dovesse ricalcare i testi vergati da Scurati, e da quello che ho visto finora lo fa, sarebbe imbarazzante spiegarne i contenuti, visto che il “figlio del secolo” viene presentato come una macchietta, un individuo senza arte né parte catapultato in un’epoca dove tutto appare opaco, compresi i tre individui che si presentano, soldi alla mano, per “aiutare economicamente l’inizio del “male” nella scena iconica che vuole descrivere i mandanti materiali di crimini fascisti, ad incentivare l’uso del manganello contro chi ha fame: personaggi che sicuramente avevano nome e cognome, ma che la rivisitazione storica ha mantenuto anonimi da un’italietta, che ieri come oggi, non ha mai avuto il coraggio di scoprirne i volti.

Mi sono sempre chiesto perché in Italia, terminata la guerra civile, non è stato mai istituito un processo al fascismo ed ai suoi esecutori, come quello messo su dagli alleati a Norimberga, per spiegare alla gente comune, quella ignara e quella che faceva finta di non sapere, le vere origini del male: perchè Mussolini e gli ultimi compagni di sventura che lo accompagnavano, prigionieri inermi dei partigiani, sono stati tutti trucidati e vilipesi, quando invece si poteva trascinarli al gran completo davanti ad un tribunale.

Chi aveva paura di una requisitoria, frutto di indagini neppur tanto complesse, che avrebbe fatto luce su potenti finanziatori, silenti speculatori, compiacenti intrallazzatori, affiancatori, manutengoli e parassiti di ogni tipo che sdoganarono una violenza per conto terzi?

La verità è che questa Repubblica, come in parte anche l’Unità d’Italia, è nata mutilata all’origine dell’etica della “responsabilità individuale”, permettendo, con colpe evidenti da parte dei nascenti partiti politici supportati da cinica  consapevolezza, di costruire un nuovo corso su macerie ideologiche sotto le quali non si è mai scavato abbastanza per cercare gli artefici dei disastri precedenti, cumuli di detriti sotto i quali giacevano muti e silenti le ombre di uomini, apparati, consorterie, lobbies, responsabili di un passato che mai si è cercato abbastanza di chiarire, per dissipare quelle nubi dall’orizzonte di una nascente democrazia che pulita non era e che faranno comodo alle classi dirigenti del futuro, che arriverà poi ad usare per magnificare o demolire l’avversario di turno: forse un equo processo e giuste condanne, anche a morte, vista la gravità dei fatti, proferite da una giuria riconosciuta e rispettata, avrebbe tolto di mezzo molti dubbi, incerti pensieri, false certezze, imbarazzanti equivoci e nascoste trame, ed avrebbe sicuramente sancito la nascita di una nazione basata sul diritto perché costruita su una pulita coscienza, sancita in base ad una seria analisi dei fatti che avevano portato l’Italia nel baratro e non sulle pallottole di un mitra sparate davanti ad un anonimo cancello di una villa sul lago di Como.

Per non parlare del ”tesoro di Dongo”, composto forse solo da un corposo malloppo di carte che  Mussolini avrebbe potuto portare davanti ad un tribunale per una difesa che sicuramente non avrebbe cambiato il suo destino, ma avrebbe fatto luce su molti altri individui che inevitabilmente si sono poi riciclati nella nascente democrazia.

Perché in Germania ed in tutto il resto del mondo si è cercato di capire mentre in Italia no? Chi aveva ed ha tutt’ora paura di tutto questo?

Il racconto della fiction mussoliniana è la naturale conseguenza di un tratto di storia negato e se i “media” hanno rilevanza sociale, e ce l’hanno sicuramente ed in modo particolare nel momento in cui per propagandare il cattivo di turno, si mobilitano masse di intellettuali del nulla cosmico, allora la cosa potrebbe diventare seria per una società civile politicamente smarrita, senza alcuna meta o speranza almeno di veder spuntare una luce che indichi una strada da percorrere nell’aiutare la “buona politica”. 

Sì, perché se è questa la rappresentazione che si fa del fascismo, di uno sparuto gruppetto di violenti che all’origine si raggruppano attorno al direttore di un giornale fallito, rannicchiato dentro un’auto dalla quale ogni tanto fa capolino il viso trafelato  che esce scientemente dalla penombra per spiegare a noi spettatori, ancor prima che ai suoi accoliti, l’ideale che lui è costretto ad abbracciare per poter sopravvivere a se stesso ed alla storia, il tutto evidenziato con irreale cinismo cinematografico, allora la cosa diventa molto preoccupante, perché rappresentare in questo modo il male che fu, sull’onda di una commedia comica alla Totò ed una simpatica tragedia alla De Filippo, consente alla massa televisiva di scambiare una catastrofe, vissuta sottoforma di un ilare cinepanettone, che in fondo è quello che vogliono gli italiani.

La figura di Margherita Sarfatti è per molti versi simile a Regina, cinica e malvagia figura interpretata da Laura Betti nel film “Novecento” di Bernardo Bertolucci , dove a predominare l’animo della donna è l’evidente narcisismo a sfondo sessuale: peccato che il contesto storico rappresentato dal grande regista italiano non sia stato nemmeno sfiorato da questo docufilm che riduce tutto nel cercare malamente di copiare figure umane con lo scopo di stupire il pubblico, rendendo questo orfano di una verità molto più complessa.

Il sadismo dei protagonisti usato come mezzo per imporre la visione agli ignari di storia patria è capovolto dalla loro stessa ingenua appartenenza ad un periodo storico nel quale appaiono smarriti: l’ideologia del male è vista come un incidente di percorso dove ogni buon padre di famiglia può incappare, sono facce quasi sorprese di trovarsi a delinquere nel giusto, uomini mutilati di personalità propria e costretti al lugubre servizio di precettori di un pensiero politico che politico non è, ma solo frutto di interessi economici altrui.

Rappresentare in questo modo il fascismo è un assist agli odierni spaesati ed ignari di politica in quanto fa loro credere che in fondo tutto è nato per caso, che non c’era nulla di serio sotto quelle camicie nere, era soltanto un gioco sparagnino divenuto poi sistema di brutalità dove la colpa è sempre degli altri, nessun responsabile, nessun senso di colpa, insomma niente di vero, era tutto uno scherzo. Un involontario quanto maldestro invito quindi a chi avesse coraggio nel volerci riprovare, una sorta di “grande fratello”, dove sperimentare l’improbabile si può sempre fare, trasformando un appartamento in una nazione senza fratelli da rispettare.

La fotografia è semplicemente stupenda, come il tratto calligrafico usato nel percorso di presentazione, belli ed accurati gli ambienti, peccato che i protagonisti non appartengano a quel mondo ma piuttosto ad un parco giochi del male incompreso ma necessario in quel momento agli occhi di certa “classe dirigente”.

Almeno nel “Cattivo poeta”, film ove l’attore Sergio Castellitto rivisita con efficacia la figura di Gabriele D’Annunzio, la rappresentazione del medesimo avviene in modo intelligente, a volte dissimile dalla realtà dissoluta e cinica vissuta dal Vate, sicuramente più elegante dal punto di vista morale, dove nessuna melanzana viene citata nel magnificare le capacità erotiche del vero inventore del fascismo: la figura dannunziana è vista come una barzelletta alla quale però il giovane rampante Mussolini si inchina, travolto dalla notizia di “Fiume consegnata all’Italia” da un socialista come lui, che come lui proletario non è, in pratica nessuno dei due sa di preciso che cosa rappresenta, due sopravvissuti del nulla ma che trovano la strada maestra percorrendo l’ignoranza della massa di italiani invitati a vendicarsi di una “vittoria mutilata” nata dall’ingratitudine alleata al tavolo della pace di Parigi, piuttosto che rimboccarsi le maniche e fare quel lavoro di ricostruzione morale e materiale di cui il paese aveva bisogno.

Se i libri di Scurati avevano il compito di risvegliare la memoria di chi non aveva conosciuto il ventennio ed il suo mentore, la serie televisiva a cui si ispirano rende un pessimo servizio storico e getta un’ombra dissacrante sullo scrittore, che visto il taglio imposto dalla regia, avrebbe dovuto, come minimo, discostarsi da tale lavoro. Invece , come sempre accade nell’Italia di ieri e di oggi, dove tutti tengono famiglia, pure l’attore protagonista Luca Marinelli ha avuto i suoi bei problemi con la nonna antifascista, dichiarandosi dispiaciuto di aver interpretato “Mascellone”, tanto con mea culpa lacrimevole, interviste con indosso un “cilicio sudario del peccato” di antica memoria, pentimenti vari, un continuo scusarsi di cotanta vergogna recitativa: tranquillo Luca, bastava devolvere il cachè ad una qualsiasi sede ANPI presente sul territorio per depurarsi da tale incoscienza artistica.

Alla fine possiamo dire di trovarci di fronte all’ennesima rappresentazione storica che parla alla pancia del paese, non certo all’anima dello stesso, per troppi anni umiliata da silenzi colpevoli che si sono tramandati in una democrazia forte ma nello stesso tempo malata di un viscerale protagonismo di tutti noi, attori di troppi silenzi ed estimatori di poche verità scomode, quindi meglio non sapere, cercando ancora una volta di sopravvivere malgrado la sempre più osannata ignoranza che ci circonda.

Per molti anni ho fatto parte dell’ANPI, quella in cui sentivi i veri partigiani raccontare con lucida pacatezza le vicende vissute, racconti in cui la consapevolezza della resistenza era evidenziata da gesti controllati e parole moderate che in fondo ci dicevano «speriamo non accada più di dover lottare tra fratelli», dove ognuno di loro invitava al dialogo, dove loro erano i primi ad insegnarci che le parole dovevano sostituire le armi, dove ognuno discuteva senza alzar troppo la voce per non sovrastare i pensieri altrui: sono morti tutti !

 

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