Nella giornata di venerdi 29 novembre, la città di Torino ha reso omaggio ad una figura, che a tutti gli effetti e per mille ragioni, deve essere considerata come parte integrante della storia di quella che è stata la prima capitale d’Italia.
Classe 1920, militare di carriera, dopo gli avvenimenti dell’8 settembre 1943, come ufficiale del regio Esercito, venne internato in un campo di concentramento tedesco, dove divise la baracca con altri ufficiali e graduati italiani, tra i quali Giovanni Guareschi, rifiutando di aderire alla neonata Repubblica Sociale Italiana. Dal 1956 iniziò ad insegnare alla scuola di guerra di Torino presso Palazzo Pralormo, sede oggi del Circolo Ufficiali, cosa questa che gli permise di osservare i lavori stradali attigui all’edificio, scoprendo in questo modo, grazie al suo intuito, le gallerie di collegamento con la vicina cittadella fortificata cinquecentesca fatta edificare dal Duca Emanuele Filiberto e che nel 1706, durante l’assedio francese delle truppe di Luigi XIV, che desiderava ad ogni costo impossessarsi della capitale del ducato sabaudo, furono con i minatori piemontesi, i veri protagonisti della difesa della piazzaforte piemontese in attesa dell’arrivo del principe Eugenio di Savoia Carignano Soissons, che unitosi con il duca Vittorio Amedeo II, riuscirono a rompere l’assedio e liberare il territorio dalla presenza del nemico.
Nasce proprio in quei giorni il mito del minatore biellese Pietro Micca che sacrificò la sua vita facendo esplodere una carica di polvere nera posta in un fornello da mina accorciando la miccia di innesco, per impedire ad una pattuglia di guastatori transalpini di penetrare, nottetempo, in una galleria di collegamento alla piazzaforte torinese, che se conquistata, avrebbe messo in seria difficoltà i difensori piemontesi.
L’allora capitano Amoretti, seguendo il suo intuito, si dedicò allo studio delle gallerie sotterranee di quel settore, riuscendo infine ad individuare il punto esatto dove avvenne l’esplosione fatale al minatore del piccolo villaggio di Andorno. I lavori di scavo proseguirono e nel 1961, in occasione del centenario dell’Unità d’Italia, vide la luce il museo che oggi tutti conosciamo con il nome di Pietro Micca e dell’Assedio di Torino del 1706.
Bella quindi l’idea di dedicare ad una persona che ha speso tutta la sua vita allo studio ed alla ricerca storica, un tratto di strada adiacente al museo che lui stesso creò, semplicemente giusto riconoscere l’alto valore culturale ed umano di ricerche che miravano a riscoprire periodi storici che appartengono a tutti i piemontesi, ricordando in questo modo, non solo l’arte della costruzione militare, ma soprattutto il sacrificio di migliaia di persone, soldati e semplici cittadini che perirono nei secoli per difendere le loro genti e la loro terra.
Durante la cerimonia sono stati ringraziati il compianto generale Franco Cravarezza, che guidò come direttore il Museo Pietro Micca e l’avvocato Riccardo Rossotto per aver stimolato in passato, la sensibilità dell’Amministrazione comunale nel progetto di dedicare una via al Generale Guido Amoretti.
La cerimonia, ospitata presso la sede del Circolo Ufficiali (corso Vinzaglio 6), ha visto la partecipazione di centinaia di persone che hanno voluto essere presenti per omaggiare una grande figura di una Torino che per molti versi non esiste più: culla industriale di quella grande FIAT che aveva permesso a tutti gli italiani una piccola autovettura, simbolo della rinascita economica nazionale del dopoguerra, rimane oggi nella nostra memoria solo l’eco degli slogan sindacali dello sciopero avvenuto nel centro di Torino proprio la mattina del 29 novembre, a due passi dal luogo in cui si celebrava l’uomo che restituì orgoglio e senso di appartenenza ai torinesi scavando nelle antiche gallerie di difesa, sotto quel manto stradale cittadino percorso dalle auto che cavalcavano il boom economico del tempo, riportando alla luce storie che si erano perse nelle nebbie di un lontano passato.
Il fato ha voluto riunire lo stesso giorno le proteste di una città che si sente ormai abbandonata dalla maestosa fabbrica torinese, rinata sulle macerie della seconda guerra mondiale, e l’uomo che invece dalle stesse rovine ha fatto nascere un sogno diventato di tutti: corsi e ricorsi della spirale storica, direbbe il buon Giovanbattista Vico.
Il Generale Amoretti, per chi ha avuto il privilegio di conoscerlo, è stato un esempio di vita concreta, una persona operosa che rifiutava la notorietà a favore dell’essere invece utile alla collettività: prova ne erano le sue testimonianze scritte, i suoi testi, le sue opere di carattere storico, sempre sobrie, mai di parte, scevre da qualsiasi condizionamento esterno, improntate a stimolare la ricerca e lo studio, mai faziose, sempre ricchissime di particolari inediti.
La sua competenza in ambito di fortificazioni e non solo, era enorme, sorretta da una grande curiosità che gli consentiva di esplorare con la mente siti ormai scomparsi, ma che avevano in passato avuto grande importanza militare, rari esempi a volte di arte ossidionale e difensiva che l’incuria degli uomini ed il trascorrere del tempo avevano cancellato assieme alle tante, tragiche vicende personali dei dimenticati sconosciuti protagonisti, che ogni guerra si lascia alle spalle: lui sapeva ricostruire idealmente, basandosi su esperienza di studi mirati e specifici, storie di strutture, di tattiche e di uomini e quando ne parlava in pubblico, era tanta la passione che traspariva dal suo racconto, che appariva come un reale testimone oculare dei fatti avvenuti secoli prima nei luoghi descritti, tanti erano gli aneddoti, le curiosità, le semplici deduzioni mai banali.
In ogni sua frase era chiara l’impronta di un uomo che seguiva i principi morali che contraddistinguevano un tempo il popolo piemontese in tutte le sue sfaccettature: laborioso nel fare, tenace nelle convinzioni. Sì, era giusto, semplicemente ed onestamente giusto, che il suo nome potesse essere scolpito sulla pietra di quel tratto, già via Guicciardini, a due passi dall’entrata dal suo museo che tanto amava.
E’ stato bello vedere la figlia Carla ed il figlio Oreste, giunto per l’occasione dal lontano Messico dove risiede, scoprire la targa cittadina ammantata con il tricolore e veder apparire il nome di papà: al loro fianco parenti ed amici e tanti collaboratori, primo fra tutti Piergiuseppe Menietti che affiancò sempre il Generale Amoretti nei lavori che nel tempo hanno aiutato il museo a crescere come importanza, recuperando opere architettoniche militari di fondamentale interesse, come il fortino del Pastiss, il Pozzo Grande della Cittadella, lo stesso Rivellino degli invalidi oggi aperto al pubblico.
Carla Amoretti ha proseguito l’opera del padre, fondando alcuni anni fa il gruppo ArGA, un insieme di figure accomunate dalla passione per la storia, continuando a studiare e ricercare documentazione atta ad arricchire un archivio famigliare molto importante, oggi conservato presso l’Archivio di Stato di Torino.